Descrizione
Il titolo è una suggestione che proviene dagli studi di Bronisław Malinowski: 1300 km è l’estensione del percorso che gli abitanti delle Isole Trobriand fanno in canoa durante la cerimonia del Kula, basata su uno scambio di braccialetti e collane di conchiglie volto a creare legami tra le persone.
Il Kula ring è il percorso seguito durante lo scambio, un circuito in un arcipelago la cui complessità visiva ricorda l’irregolarità delle pezzature della palladiana che pavimenta la sala d’attesa di Jonas. Proprio questo pavimento costituisce il supporto di uno degli interventi di Cattivelli: qui infatti si svilupperà una partitura sonora modulata su grafie e sequenze sillabiche.
“La partitura”, afferma l’artista, “può essere tradotta in suoni ma può anche essere solo immaginata, evocata. È qualcosa che si aggancia al concetto lacaniano della ‘lalangue’: questa idea di lingua che esiste prima di essere intrappolata in una grammatica, in un alfabeto che assomiglia a una sorta di lallazione, un linguaggio infantile. Ciò ha a che fare con il piacere di questo corpo che può articolare suono”.
Alla partitura si affiancherà un intervento sonoro che interesserà alcuni pannelli di rivestimento delle pareti, trasformati in corpo risonante da trasduttori di superficie in grado di tradurre fisicamente la vibrazione degli elementi con cui sono in contatto in vibrazioni sonore. “Ciò che questi pannelli che si animano diffondono sono eventi sonori che hanno a che fare con delle disarticolazioni vocali, con dei segnali acustici che sono delle interferenze, delle infiltrazioni che, andando a sommarsi a quello che già è l’impronta sonora di quel luogo, la estendono e danno per me anche il senso di un richiamo, dello spostare l’attenzione delle persone che sono in attesa da sé, di portarle altrove, fuori”.
Intervista a Daniela Cattivelli
L'intervista si è svolta all’inizio della residenza, a seguito delle prime riunioni con il gruppo di Jonas
Waiting Room Residency è un progetto che nasce dalla collaborazione con il centro psicoanalitico Jonas di Trento, all’interno del quale si svolgerà anche la restituzione della ricerca che tu e Maria Adele condurrete nel corso dell’anno. Qual è la tua relazione con la psicoanalisi e con i suoi temi? Avevi già un interesse a riguardo?
DC: Devo dire che la psicanalisi è un territorio nel quale non mi sono mai coscientemente addentrata, come artista. Quando mi è stata proposta la possibilità di fare una residenza in un luogo così specifico, legato al disagio e alla cura, subito la mia reazione è stata di perplessità; poi, come tutte le cose che incontro e che conosco poco, mi sono incuriosita. È l’occasione di acquisire nuove prospettive, che altrimenti non avrei considerato: ad esempio, non mi sono mai occupata di psicoacustica, una disciplina molto interessante, che riguarda il modo in cui ascoltiamo i suoni, il senso che gli diamo. Io stessa, del resto, ho frequentato la sala d’attesa di un analista. Era lo spazio in cui raccoglievo tutti i pensieri per rendere l’incontro il più efficace possibile. Certo, si trattava di un analista del servizio pubblico, quindi di un contesto particolare: confrontandomi con amiche e amici, mi pare di capire che nel servizio pubblico ci sia una maggiore condivisione del momento di attesa rispetto all’analisi privata, in cui, mi dicono, è maggiore il senso di riservatezza. Nel pubblico ci sono molte persone in seria difficoltà. A me, però, non dispiaceva condividere quello spazio senza dover vivere quel senso di pudore rispetto al proprio disagio.
La tua esperienza personale rispetto alla sala di attesa è interessante, perché, mi dici, è un luogo che dedicavi al raccoglimento, concentrandoti su quello che avresti detto di lì a breve. Hai pensato in che modo relazionarti a questo particolare contesto dal punto di vista della produzione artistica?
DC: Partiamo dal presupposto che il suono, a differenza dell’elemento visivo, è qualcosa che non si può del tutto neutralizzare: se la vista di qualcosa ti disturba puoi spostare lo sguardo da un’altra parte, ma le orecchie rimangono sempre aperte al paesaggio sonoro circostante. La sala d’attesa di Jonas, poi, è già un luogo in cui abitualmente c’è una diffusione sonora, per fare in modo che dalla sala d’attesa non senta chi è nelle altre stanze.
A partire da queste considerazioni, vorrei entrare in questo paesaggio sonoro un po’ in punta di piedi, o forse anche solo evocando il suono. Gli oggetti e gli stimoli acustici a cui penso hanno una presenza sottile, non entrano in modo irruento nello spazio...sono suoni che puoi persino dimenticare, a un certo punto. Possono anche essere presenze fisiche, perché non lavorerò solo con il suono. Voglio ragionare sulla dimensione della diffusione.
Non vorrei rubare tempo o attenzione alle persone che stanno lì dentro, ma mi piacerebbe che ci fosse qualcosa nello spazio che le incuriosisse e che le facesse tornare in un altro momento. Qualcosa che in un primo momento percepisci in maniera distratta, ma che è abbastanza pregnante da farti tornare. Forse mi piacerebbe mettere in campo anche la dimensione della scelta, la possibilità di attivare o disattivare l’ascolto.
Il tema della fruizione dello spazio e dell’individuazione del pubblico è sempre più centrale, soprattutto in questi tempi, che hanno messo fortemente in crisi le modalità di accesso a ogni tipo di istituzione. Quanto sei influenzata, solitamente, dal contesto in cui si trovano le tue opere o si svolgono le tue performance?
DC: Dipende dalle circostanze. Quando, come nel caso di Waiting Room Residency, mi viene chiesto di sviluppare un lavoro site-specific, il lavoro inizia dall’analisi dello spazio e, ancora di più, della fruizione di quello spazio e delle persone che lo frequentano, che peraltro arrivano nella sala d’attesa non pensando di fruire qualcosa di artistico. Nella mia pratica, invece, non mi pongo il problema a priori.
Penso in generale che le persone siano intelligenti, parto sempre da questo presupposto. Faccio dei progetti che qualcuno può considerare di ricerca, ma io non credo che il mio lavoro sia rivolto a persone che devono avere particolari competenze o strumenti. Credo invece che la gente sia in grado di capire quello che faccio, e che, se il mio lavoro ha spessore, arriverà. Non cerco di sviluppare un progetto pensando al tipo di contesto, all’idea, ad esempio, che in un contesto popolare tu debba concedere qualcosa al pubblico o semplificare. Faccio fatica a ragionare in questi termini, lo trovo offensivo nei confronti di chi fruirà il lavoro.
La durata “lunga” della residenza corrisponde al tempo di una ricerca che ci piace immaginare come fondamentalmente aperta, capace di condurre a riflessioni anche inaspettate, nate dalla relazione con Jonas e le realtà del territorio. Che valore ha la collaborazione nella tua pratica artistica, come gestisci e organizzi gli spunti che vengono dall’esterno?
Io ho veramente bisogno di lavorare con gli altri. Dipende anche, chiaramente, dalle dinamiche che si creano all’interno dello scambio, ma per me è abbastanza vitale, e si ricollega al discorso che ti facevo relativamente all’invito a partecipare a questa residenza: è l’opportunità di guardare il mio mondo da altre prospettive.
Raramente inizio progetti pensando a un suono, come fanno molti che si occupano di musica. In prima istanza ho bisogno di parole, di discorsi, di condivisioni, di leggere cose che mi portano altrove: tutto questo mi permette di capire quale sarà il suono di un lavoro. Collaboro quindi spesso con non musicisti, con danzatori, videomakers, attori, registi teatrali, perché è come se i loro linguaggi mi nutrissero. Il mio lavoro inizia dalla ricerca di un vocabolario in grado di direzionarmi verso un mondo sonoro preciso.
Waiting Room Residency ha un team di artiste e curatrici esclusivamente femminile. Il mondo della cultura ha una vasta presenza femminile, eppure questa situazione si crea abbastanza raramente. Ci sono degli stereotipi che resistono anche in contesti apparentemente liberi e inclusivi. Da compositrice e docente del conservatorio, noti queste situazioni anche nell’ambito della musica?
DC: La problematica si presenta sia all’interno di istituzioni, come i conservatori, sia fuori: il numero di musicisti maschi, ad esempio, è nettamente superiore. Io stessa, l’anno scorso, su una classe di venti studenti, avevo solo due ragazze. Quest’anno tre. Per anni ho suonato il sassofono, e idem, ero l’unica sassofonista. In Italia la presenza femminile è particolarmente scarsa, ma anche nel resto del mondo, se andiamo ad analizzare i palinsesti dei festival di musica elettronica...Il genere, poi, può diventare un’arma a doppio taglio. Ad esempio, io ho suonato a lungo il sassofono in un gruppo di sole donne, un gruppo che si era formato spontaneamente fra amiche dell’università, senza alcun presupposto politico. Venivamo invitate a molti festival, ma di gruppi di sole donne: a un certo punto questa situazione mi ha messo a disagio. È piuttosto complicato rispondere a questa domanda, si sovrappongono questioni sociali, culturali, così come una difficoltà a immaginarsi a fare altro rispetto a quello che ci si aspetta da una donna.
L’ultima domanda si ispira a quella posta da Martin Esslin del New York Times Book Review a Vladimir Nabokov in un’intervista del 1968, parte della raccolta Intransigenze. È una domanda semplicissima, ma molto profonda e personale, che, riadattata, suona nel seguente modo: “Che cosa prova Daniela Cattivelli nei confronti del suo lavoro?”
Io ho organizzato tutta la mia vita intorno al mio lavoro. È come se io fossi un anello di Saturno, giro attorno a questo pianeta, da sempre, ed è come se non arrivassi mai. In tutto questo muoversi in cerchio c’è un misto di grande fatica, ma anche di grande entusiasmo.
Ph: Lorenzo Danieli
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